Era la fine del 2016 quando la Direttiva numero 95 del Parlamento Europeo sanciva, per le società con oltre 500 dipendenti, l’obbligo di redigere, accanto al bilancio di esercizio, un report di sostenibilità con la rendicontazione di tutte le iniziative legate alla responsabilità sociale d’impresa. Cinque anni dopo, lo scenario è radicalmente mutato: il rispetto dei criteri ESG, che misurano l’impatto ambientale, sociale e di governance delle imprese, da vincolo è diventato opportunità. Da costo a investimento. Da pratica etica a valore aggiunto.
«Le imprese attente alla sostenibilità sono, in generale, meglio gestite, affrontano con maggiore resilienza le crisi e raggiungono performance migliori delle concorrenti – analizza Bettina Campedelli, docente di Economia aziendale all’Università di Verona, a conferma di quanto l’equazione tra sostenibilità e competitività sia attendibile -: ciò è dimostrato da numero s i s tudi ma è comprensibile, se pensiamo che parametri ambientali, sociali e di governance sono misurabili. Misurandoli, le imprese assumono una visione integrata dei fattori ESG quali fattori di competitività. Va detto, poi, che la diffusione internazionale del concetto di sviluppo sostenibile rende questo approccio una condizione quasi necessaria per partecipare alle filiere produttive. E sappiamo quanto è importante per le nostre imprese la presenza sui mercati internazionali ».
Un cambiamento profondo, culturale e ancora da completare. Paolo Gubitta, ordinario di Organizzazione aziendale all’Università di Padova, fornisce le prime istruzioni su come dirottare le aziende verso questo cambio. «La sostenibilità è una strada obbligata – premette – non c’è alternativa. Rappresenta oggi quello che qualche anno fa rappresentava la digitalizzazione: dev’essere un pilastro della strategia aziendale, un tema di governance e di ruoli ».
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